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IRENE CABIATI
Lo scheletro di una cattedrale cattolica, a Mogadiscio, emerge da macerie e plastica e viene da chiedersi cosa cerca la donna che sale le scale sulle quali, tanti anni fa, gli sposi di facevano le foto fra gli abbracci dei parenti. Un’altra donna, rientrata a casa, dopo l’assalto di miliziani, trova soltanto la devastazione. Altre, tante, straziate da violenze e malattie, seguono i funerali, si aggrappano ai figli, pregano. Le lacrime le hanno esaurite, rimane la paura .
Nelle fotografie di Marco Gualazzini pubblicate da Contrasto nel volume «Resilient», popoli tormentati dai conflitti sfilano davanti all’obbiettivo che vuole scrutare nei loro cuori. In questa Africa il sole è una lama che ferisce l’oscurità del male, ma rimane all’orizzonte e non si alza mai.
In viaggio con il fotoreporter
E’ il racconto di un viaggio che non vorremmo mai fare: il fotogiornalista, per anni ha attraversato l’Africa, soprattutto la fascia centrale, dal Corno d’Africa alla Nigeria: villaggi, campi profughi, laghi inariditi, miniere. In questo libro Gualazzini propone motivi di riflessione sotto il segno della resilienza, quella capacità che aiuta le persone a superare le avversità, trovando nell’angoscia la forza di andare avanti, nonostante tutto.
In guerra o al country club
Uomini e donne si danno da fare nel quotidiano fra ferite e malattie devastanti: militari che imbracciano mitra, pescatori che portano sulle spalle giganteschi pesci, bambini che giocano a pallone, ragazzi eleganti seduti al country club e poveri matti, incatenati mani e piedi, perché la loro testa non riesce più a contenere il terrore. E poi i morti la cui presenza, per rispetto, in questo reportage non sarebbe necessaria perché non aggiunge nulla al significativo repertorio.
La sofferenza quasi viene mascherata nella composizione fotografica delle figure, degli sfondi, delle pieghe dei tessuti. I soggetti sembrano comparse di un set cinematografico, modelli in posa per l’artista che li ritrae. Le donne fotografate, con i loro veli colorati ricordano il dolore, ai piedi di Cristo raffigurato nelle deposizioni del Rinascimento, altri scatti, i tenebrosi chiaroscuri alla maniera di Caravaggio.
Ricominciare la vita
Come sottolinea il giornalista Domenico Quirico nella prefazione, al di là delle considerazioni estetiche, quello che colpisce guardano le fotografie sono loro, gli africani. Nella lotta quotidiana contro la fragilità e le minacce, vittime e aguzzini sembrano perennemente in ascolto, come pronti e tesi alla fuga. Si considerano potenzialmente morti. Saranno uccisi ma incominceranno di nuovo la vita dalla fine. «E’ l’uomo stesso che si ricompone in un atro uomo: di qualità migliore. L’arma rivoluzionaria è la sua umanità»
Quirico ammette che, nel suo lavoro di inviato speciale, viaggio dopo viaggio, soprattutto in Africa, ha capito che l’infelicità delle persone è la norma non l’eccezione: «Ho lottato per non iniziare a farci l’abitudine».
L’abitudine è l’anticamera dell’indifferenza. Quella che ci persuade che sia normale la povertà che si intravede dagli steccati dei resort turistici o sul ciglio delle nostre piazza su cui si posano migranti sopravvissuti alla morte. E intanto la nostra resilienza di fronte al probabile «attacco» migratorio, per ora, ci permette di voltare la faccia dall’altra parte.
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